Gli studiosi occidentali pensano che i monasteri romano-ortodossi siano a immagine e somiglianza dei conventi latini, consistano cioè in un edificio, più o meno grande, collegato a una chiesa: è così che gli stessi eruditi possono poi ubicare in questa o quella località un dato monastero, segnalandone con teutonica precisione – al millimetro - longitudine, latitudine e altitudine. Purtroppo per loro, i monasteri ortodossi non somigliavano e non somigliano ai conventi cittadini dei Frati Domenicani, Francescani ecc., e neppure ai “monasteri” extra-urbani dei Benedettini, Certosini ecc. Somigliavano e somigliano a paesi, più o meno grandi, con più edifici, più chiese (almeno due: il Katholikon e quella del cimitero) e con “frazioni” (metochia), più o meno lontane dal “centro” e ciascuna delle quali con almeno una chiesa. Ne segue che:
1. un ipotetico Monastero di Sant’Eufemia non va ricercato nelle vicinanze dell’attuale Sant’Eufemia: può darsi che in origine tutto il paese fosse il Monastero;
2. è inutile, per esempio, cercare il Monastero dei Santi Elia e Filareto a Palmi oppure a Seminara: può darsi che fosse sparso tra Palmi e Seminara, e che i ruderi che oggi vengono indicati - a Palmi o a Seminara – come il Monastero, in realtà corrispondano solo a uno degli edifici dello stesso monastero.
Nel primo caso, potrebbe darsi che le varie strutture d’un ipotetico monastero siano state occupate da “civili” man mano che esse furono abbandonate dai monaci, mantenendone il nome (vedi, per esempio, i vari Monastir, Metochi, Scete, Monasterace… e, chi sa, quei centri come San Lorenzo, San Fantino, Sant’Ilario…).
Nel secondo caso: per esempio, dalla Vita di san Cipriano di Reggio (circa 1140\1240) sappiamo che il Monastero di San Nicola di Calamizzi aveva una chiesa principale a tre navate, uno skevofilakion (sacrestia \ biblioteca), una torre (con la scala a chiocciola), tre palazzi a due piani, una trapeza (refettorio) per i pellegrini \ visitatori e una trapeza per i monaci (decorata con grande bellezza) con nelle vicinanze almeno una cucina e una dispensa, nonché grandi e confortevoli abitazioni (kellià) dei monaci. Dalla stessa Vita sappiamo che Calamizzi aveva un numero imprecisato di frazioni (metochia), tutte dotate di chiese e cappelle. Altro esempio: il Monastero del Salvatore di Messina occupava tutta la lingua di terra che forma il porto, probabilmente dall’incrocio tra viale San Martino e via Cannizzaro in poi, e certamente aveva – oltre alla chiesa principale, dedicata alla Tuttasanta – almeno altre due chiese, una dedicata a san Nicola e una a san Giacinto.
I due esempi si riferiscono sempre a cenobi: cioè a istituzioni in cui i monaci fanno appunto vita comune (tutti insieme partecipano alle ufficiature e consumano i pasti). Ma il mondo ortodosso conosceva e conosce anche altri tipi di vita monastica: in questi casi, non bisogna pensare più a un paese (e sue frazioni) ma a una superficie territoriale ancora più estesa, per esempio al vastissimo territorio del Comune di Cardeto in provincia di Reggio, con decine di frazioni distanti dal “centro” davvero tanti chilometri.
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