venerdì 22 maggio 2009

Pietro Moghila

Pietro Moghila è il padre di tutte le deviazioni liturgiche (e quindi teologiche) che purtroppo sono tuttora diffuse in alcuni ambienti ortodossi. Nato nel 1596, militare nell’Esercito polacco, nel 1631 a Kiev fondò un Collegio sul modello delle istituzioni dei Gesuiti da lui conosciute durante gli studi in Europa (al Collegio Greco di Roma?). Nel 1640 pubblicò un Catechismo “ortodosso”, che riflette l’influsso del Catechismo del gesuita tedesco Pietro Kanis e nel 1646 – purtroppo – un Efchologhion del tutto influenzato dalla “teologia sacramentaria” post-tridentina e dove sono presenti persino riti semplicemente tradotti dal latino (e sino allora sconosciuti al mondo ortodosso). Le innovazioni di Moghila ebbero facile diffusione tra gli Slavi, in Transilvania, Valacchia, Moldavia e, in genere, nei territori più o meno influenzati dalle Potenze occidentali. Per paradosso, la Turcocrazia ha invece preservato il mondo greco da tante innovazioni (qualche traccia è stata espunta dai testi liturgici editi in questi ultimi anni dalla Apostoliki Dhiakonia). Tra le innovazioni moghiliane (cioè latine) si può citare, ad esempio, l’abitudine di accompagnare alcune preghiere con l’aspersione di “acqua santa” (e l’uso dello stesso “aspersorio”), lo scrupolo “gesuitico” di confessarsi subito prima di fare la comunione, la convinzione che l’Efcheleo è solo per i moribondi, lo stare in ginocchio anche nei tempi vietati, ecc.

E’ da notare che molti usi latini, introdotti da Moghila, nella stessa cristianità occidentale sono stati man mano abbandonati (e oggi del tutto dimenticati, anzi proprio sconosciuti allo stesso clero), mentre sono rimasti in vita tra alcuni ortodossi, i quali – ignorandone le origini - spesso li mantengono e anzi difendono con fanatico zelo.

Riserva Eucaristica

Chiamiamo così i Doni consacrati il Grande Giovedì e conservati per i malati: l’uso è già attestato sicuramente nel 708. Simeone di Tessalonica la chiama Parakatathìki (deposito), mentre popolarmente è indicata come Margarite (perle). In merito:

a. non è lecito preparare la Riserva in altra Liturgia che in quella celebrata al Vespro del Grande Giovedì;

b. la Riserva è destinata esclusivamente per la comunione dei malati e solo se non si può celebrare immediatamente prima, quindi

c. non può essere utilizzata per la comunione dei neobattezzati se non per gravissimi motivi, ovvero “in articulo mortis” (se cioè si prevede che non possano restare in vita sino a una successiva Liturgia);

d. la Riserva non può essere conservata in abitazioni private, in templi nei quali non si celebra almeno una volta la settimana e tanto meno in luoghi di culto non propri;

e. il sacerdote deve controllare spesso lo stato di conservazione della Riserva e, qualora fosse necessario, immediatamente consumare; in ogni caso essa

f. deve essere obbligatoriamente consumata – al più tardi - nella Liturgia celebrata al Vespro del successivo Grande Giovedì.

La Riserva si ottiene in questo modo:

a. alla pròtesi del Grande Giovedì il sacerdote prepara un secondo Agnello, ripetendo quanto fatto per il primo;

b. all’elevazione, leva entrambi gli Agnelli;

c. dopo aver immesso lo zeon nel calice, intinge l’Agnello e lo depone (“rovesciato”, perché cominci ad asciugare) su un disco apposito, che lascia sull’antiminsio (che, quindi, non richiude);

d. alla fine della Liturgia o appena possibile (ma indossando almeno l’epitrachilio) con la Lancia riduce l’Agnello in frammenti che farà disseccare.

L’essicazione può essere

1. naturale (in un ambiente molto asciutto e arieggiato; sotto controllo ci si può eventualmente giovare dell’azione del sole), oppure

2. “forzata” (sovrapponendo il disco a una fonte di calore):

in entrambi i casi, occorre rigirare (usando la punta della Lancia) i vari frammenti, perché non s’attacchino al disco (e, in caso di essicazione forzata, non si carbonizzino).

La Riserva deve essere conservata nell’artoforion, sospeso sulla mensa della Pròtesi o sulla Sacra Mensa, e davanti vi deve ardere sempre una lampada (perciò detta luce che-mai-si-spegne).

L’artoforion può essere di legno pregiato (l’Agnello si conserva meglio perché il legno “respira”) o di metallo ugualmente pregiato. La forma originale è quello di una mela (perciò è detto pixomilon, pisside-mela) o di una colomba, sospese a una catena. Ai nostri giorni - per influenza occidentale - si vedono artoforia a forma di tempietto (“tabernacolo”), collocati – sempre per influsso occidentale - sulla stessa Sacra Mensa.

Incensazioni

1. Alla IX ode del Mattutino il sacerdote incensa l’icona della Tuttasanta, la Mensa e il Santuario, le icone del templon e tutto il resto.

2. Alla Preparazione dei Doni si incensano l’asterisco e i veli (se il sacerdote è solo, si limita ad accostarli al fumo); si incensa poi la Pròtesi e il Santuario (e tutto il resto se, essendo giunti proprio allora alla fine del Mattutino, si sta per iniziare immediatamente la divina Liturgia). In entrambi i casi, percorrendo tutta l’aula; in seguito, restando sul solea.

3. Al canto degli Alliluia (non prima, durante la lettura dell’Epistola) il sacerdote incensa l’Evangeliario: non ha molto senso estendere l’incensazione.

4. Prima del trasporto dei Doni, il sacerdote incensa l’altare, il santuario, il templon e tutto il resto; recatosi alla Protesi, incensa nuovamente.

5. Dopo il trasporto dei Doni, e dopo averli deposti sulla Mensa, il sacerdote incensa l’air (vedi sopra) e poi gli stessi Doni, dicendo Benefica, Signore, nel tuo compiacimento... e il resto del salmo 50.

6. Al Megalinario il sacerdote incensa i Doni.

7. Alla fine della comunione incensa i Doni sia prima di riportarli alla Protesi, sia dopo averli deposti sulla mensa della Protesi.

8. Al Vespro, il sacerdote incensa al canto di Salga a te la mia preghiera (la Mensa, il Santuario e – uscendo – il templon e l’aula). All’Ingresso (se c’è) si porta l’incenso e il sacerdote incensa innanzi a sé rientrando nel Santuario. L’incenso si userà poi alla Litì e all’Artoklasia (quando ci sono).

9. Quando si deve incensare “intorno” (la Mensa, un’ icona, ecc.) non si intende che il sacerdote incensa girando attorno: si ferma, per incensare, ai quattro lati.

10. I campanelli non sono stati messi per fare un po’ di baldoria: è sempre meglio evitare qualsiasi pacchiano folklore, e la chiesa non è una Fiera dell’Est.

Reposizione dei Doni

Mentre il sacerdote riporta i Doni alla mensa della Pròtesi e l’incensa, il coro canta: Sia colma la nostra bocca della tua lode, Signore, perché ci hai fatti degni di partecipare ai tuoi santi, immacolati e immortali misteri, conservaci nella tua santità, affinché meritiamo la tua gloria, meditando ogni giorno la tua giustizia. Alliluia (3v). Solo in alcuni giorni, espressamente indicati dal Typikon, questo canto si omette: se non lo si sa cantare, si può pur sempre modulare o almeno proclamare.

Commemorazione dei Santi

La devozione personale di qualche sacerdote a volte trasforma commemorazioni alla pròtesi, preghiera Salva, Signore, il tuo popolo e Dimissione, nella lettura d’uno sterminato elenco telefonico. Se la devozione privata è accettabile nei riti della pròtesi (purché si rispetti – educatamente – l’orario d’inizio della Liturgia), negli altri casi si rispetti il testo così come è stampato nei libri liturgici. A proposito va ricordato che come santo del giorno si commemora solo il santo che ha dhoxastikon al Vespro.

La lingua liturgica

La lingua liturgica per eccellenza – piaccia o non piaccia – è il greco: già per il solo e semplice motivo che il 100% dei testi liturgici è stato pensato, musicato e scritto in greco. Così come il 100% dei testi biblici originali è in greco (e in gran parte anche pensati in greco). Così come in greco è – salvo marginali apporti siriaci e latini – il materiale teologico alla base degli stessi testi. Anche un analfabeta, poi, è consapevole che tradurre equivale sempre a tradire: figurarsi tradurre dal greco – ricco di almeno 90 milioni di lemmi – in una qualsiasi altra lingua e specialmente nelle lingue moderne (l’italiano medio usa non più di seicento \ ottocento vocaboli).

Ciò premesso, la Chiesa non si è arroccata nell’uso esclusivo del greco (come per un millennio almeno, con il latino, la cristianità occidentale) e ha sempre trovato del tutto naturale l’uso degli idiomi locali, sin dai tempi antichi in cui i testi greci furono tradotti in georgiano o, secoli dopo, in slavo. San Cirillo – un greco – finì in carcere, per difendere l’uso liturgico dello slavonico, e nel 18° secolo fu sant’Antimo – un georgiano – a promuovere le traduzioni in rumeno.

Legittimo è quindi l’uso anche dell’italiano, purché sia davvero italiano e non pseudo-italiano: qua e là si sentono invece dei testi con fonemi (forse) italiani, ma più incomprensibili dell’ungro-finnico. Se anziché il verbo divinizzare uso il verbo indïàre, tanto vale che parli in calmucco.

E’ poi comprensibile che, in una concelebrazione, ogni sacerdote usi la propria lingua (soprattutto se non è in grado di usare decentemente la lingua del luogo), ma è piuttosto bizzarro che sacerdote, da solo, faccia sfoggio delle proprie conoscenze (?) linguistiche. E’ infatti accettabile l’uso di un moderato bi-linguismo (per esempio: il sacerdote usa l’italiano e il coro usa il greco), ma insopportabile è la babele linguistica, con il sacerdote che pronuncia una frase in italiano, la successiva in rumeno, la terza in russo, la quarta in arabo, e chi più ne sa più ne dice. Anziché sentirsi tutti “accolti” tutti, si finisce che nessuno sa più dove si trovi.

Non si capisce infine perché solo in Italia i fedeli abbiano mal di pancia se in chiesa ciascuno non sente la propria lingua materna: non ha malpancismo lo spagnolo che va in una chiesa ortodossa di Helsinki, e così è per il fedele greco che va in Georgia, per l’ortodosso ugandese a Gerusalemme, per il fedele arabo a Cuba (e per l’italiano che va in Grecia).

Viene il sospetto (?) che il malpancismo sia d’origine esclusivamente clericale, provocato cioè da ecclesiastici i quali a niente altro pensano che a raccattare quanta più “gente” possibile, trasformando le sacre celebrazioni in una sorta di Eurofestival (nel quale, però, tutti usano l’inglese). E siccome il mal di pancia si registra solo in Italia, c’è il sospetto (?) che qualcuno soffra di una sorta di complesso d’inferiorità: che cioè abbia  paura di apparire meno ortodosso se usa l’italiano.

L'Isodhikon di Pentecoste

L’Isodhikon di Pentecoste è: Innàlzati, Signore, nella tua potenza; canteremo e salmeggeremo le tue opere potenti. Salva noi, Paràclito buono, ché a te cantiamo: Alliluia! Gli antichi Typikà lo prescrivono per la domenica di Pentecoste e per tutto il resto della settimana, sino a sabato compreso, fine-festa di Pentecoste (analogamente alla Settimana del Rinnovamento). Typikà recenti, invece, per i giorni di martedi – venerdì, indicano uno strano, incomprensibile Venite, adoriamo e prostriamoci a Cristo; Salva noi, Paràclito buono… Probabilmente si tratta di una svista iniziale, pigramente ripresa senza alcun controllo.

Il Rito italiano

A differenza di tutti gli altri Paesi del mondo, in Italia si usano molti e diversi Typikà. Per limitarci ai soli sacerdoti canonicamente operanti in Italia, vediamo che essi seguono:

1. gli usi descritti nell’Imerologhion di anno in anno pubblicato dalla Chiesa di Grecia, oppure

2. gli usi descritti nell’Imerologhion di anno in anno pubblicato dal Patriarcato di Costantinopoli, ma soprattutto

3. il Typikon che ogni sacerdote si è stampato in proprio, mettendo insieme cose viste durante una gita a Mosca e una vacanza a Mykonos, o navigando in Internet, o saltellando tra i vari canali satellitari.

Ognuno dei Typikà del terzo tipo ha un’autorità indiscussa, ha anzi una singolare caratteristica: ogni Typikon è più ortodosso di tutti gli altri, e infatti ogni singolo sacerdote garantisce che il proprio Typikon è precisamente quello “russo”, oppure che è d.o.c. “dell’Athos”, e così via. In verità, gli esperti discutono se gli usi del Club Mediterranée di Folegandros (isole Cicladi) praticati a Bolzano siano più autentici di quelli del Villaggio Valtur di Kohtlajärve (Finlandia) seguiti a Pantelleria: ma, si sa, gli esperti amano trastullarsi con problemi bizantini.

Il Rito italiano non è piattamente monotono: i paramenti sono similrussi, il Vespro è similbulgaro, il Mattutino similrumeno, i testi in similitaliano e così via. In verità, il Rito italiano è contraddistinto anche da uno sfarfallio di lingue: la prima ektenia si fa in slavo antico ravvivato da pronuncia siciliana, la seconda in serbo-calabrese, e così via: potrà capitare di sentire anche una arcana lingua che – potrà sembrar strano – a volte somiglia al greco.

L’unica difficoltà del Rito italiano è costituita dal calendario: ogni sacerdote di solito decide sul momento se usare il calendario giuliano o il gregoriano o l’etiopico o l’accadico-sumerico; i digiuni, però, in genere sono secondo antichi cànoni trasteverini.

Sacerdoti ortodossi in Calabria

 

Poiché in Calabria sono attivi alcuni gruppi di Uniati (detti anche Cattolici di rito bizantino oppure greco-cattolici) o gruppi comunque non in comunione con la Chiesa ortodossa, si consiglia di chiedere informazioni a:

p. Antonio (vicario arcivescovile), tel. 0965.622.437 \ 368.755.6795 per quanto riguarda la Calabria nel suo insieme; a p. Daniele, tel. 0965.55.191 oppure a p. Ilia, tel. 392.210.9238, per quanto riguarda la provincia di Reggio Calabria; a p. Joan, tel. 328.643.5570, per le province di Catanzaro, Crotone e Vibo; a p. Atanasio, tel. 0981.327.83 \ 349.280.9013, per la provincia di Cosenza.

martedì 19 maggio 2009

Il Grecanico

K. Lampryllos, in Una tragica beffa, riedito da L’âge d’homme, Lausanne, 1987, con il titolo La mystification fatale, già nella prima metà del XIX secolo avanzava l’ipotesi che la presunta discendenza del grecanico (la “lingua greca” dell’Italia Meridionale) direttamente dal greco antico, omerico, fosse del tutto ideologica, “politica”. Gli studiosi dell’epoca avrebbero esaltato la sopravvivenza di termini arcaici nel Grecanico (che peraltro si riscontrano oggigiorno anche nel Neogreco dei marciapiedi d’Atene) per due motivi:

1 tenere lontani i Romani dell’Italia Meridionale dalla voglia d’indipendenza che a quell’epoca infiammava i Romani della Rumelia (la terra dei Romani), della Cappadocia, del Peloponneso, ecc.

2 nascondere il ruolo della Chiesa (ortodossa) nella sopravvivenza della lingua e della identità nazionale.

Per quanto riguarda il punto 2, c’è da dire che – in effetti – la lingua greca sopravvive in Italia Meridionale, nonostante il genocidio operato dai Normanni, finché e dove è rimasta viva la tradizione romano-ortodossa.

Per quanto riguarda il punto 1, si sa quanto le Potenze occidentali temessero che le insurrezioni contro i Turchi prima, e la dissoluzione dell’Impero ottomano poi, portassero alla nascita di un grande Stato Romano, naturale alleato del potente Impero russo, se non – addirittura - alla rinascita d’uno sterminato Impero Romano, che sarebbe andato dall’Alaska al Mediterraneo. Si provi a mettere insieme tutti i territori che nel XIX secolo erano sotto l’influenza della Russia e tutti i territori che erano più o meno sotto l’influenza della Costantinopoli ottomana (e densamente abitati da Romani: si pensi ad Alessandria): sarebbero restati “fuori” solo la penisola iberica, gli staterelli della penisola italiana, Francia, Germania e Inghilterra (Stati tutti - per giunta - religiosamente in conflitto tra loro), nonché il Regno di Napoli dove però “troppo” forti e popolari sarebbero state le simpatie per il rinato Impero romano (senza tener conto degli interessi commerciali: Palermo è senza dubbio più vicina ad Alessandria che a Lisbona; Reggio può vendere più seta a Damasco che a Dublino).

Si vedano in questa ottica le amorose cure che le Potenze occidentali prestarono al capezzale del Grande Malato, l’Impero ottomano morente; il terrore delle stesse al pensiero che un Cesare (lo Csar) potesse tornare a Costantinopoli e che un patriarca ortodosso tornasse a celebrare a Santa Sofia (a proposito, vedi G. Croce, La Badia Greca di Grottaferrata, Città del Vaticano 1990). Si spiega così persino la glaciale indifferenza delle Potenze occidentali per la Catastrofe dell’Asia Minore, nel 1922. E la data 6 settembre 1955 ricorda qualcosa?

Vero è che - per confondere le acque - le Potenze occidentali chiamarono ufficialmente Romanìa la Dacia, e Grecia la Rumelia. La confusione è così riuscita che a noi stessi è molto difficile usare il termine romani per indicare… i Romani: per esempio, il termine romanico - dal 1818 (grazie al francese M. De Gerville) - comunemente si usa per indicare lo stile dell’Europa occidentale (barbarica) dei secoli XI\XIII. E quegli studiosi che - per indicare i Romani - usano il termine Romei, non si rendono conto (forse) che esso comunemente vuol dire soltanto pellegrini diretti a Roma (Antica).

Scisma dell'Oriente

Per rendersi conto di quanto sia stupido questo modo di dire, basta dare un’occhiata all’atlante. Il 16 luglio 1054 (data del supposto Scisma d’Oriente), quando il cardinale franco-germanico Humbert de Moyenmoutier scomunica l’arcivescovo di Costantinopoli a nome del (defunto!) papa Leone X (il franco-germanico Bruno di Dagsburg), l’influenza del papato è pressoché insignificante: si può dire che essa non va oltre i confini dello “Stato” germanico: parte dell’attuale Germania, parte dell’attuale Francia e il centro-nord dell’attuale Italia. Per di più, il papato è privo di autonomi poteri (è scelto dall’Imperatore germanico), già da tempo era iniziata la girandola di papi e antipapi e, infine, la cristianità occidentale era travagliata da movimenti ereticali e nel pieno di quel che gli stessi storici occidentali chiamano “secolo oscuro”.

In ogni caso, da una parte abbiamo alcune Chiese del centro-nord Europa - del solo Patriarcato di Roma Antica - e dall’altra tutte le Chiese del Patriarcato di Nuova Roma, del Patriarcato di Antiochia, del Patriarcato di Alessandria e del Patriarcato di Gerusalemme (nonché Copti, Etiopi, Armeni, Caldei, ecc.). Non è più corretto quindi parlare di Scisma dell’Occidente oppure di Scisma dall’Oriente?

Riti orientali e occidentali

La distinzione nasce probabilmente da un pre-concetto: per motivi ideologici, alcuni storici – figli dell’Illuminismo francese – hanno immaginato l’esistenza di un Impero romano d’Occidente, distinto e separato dall’Impero bizantino (detto anche, nel migliore dei casi, Impero romano d’Oriente). I due Imperi avrebbero così avuto due tradizioni liturgiche diverse. Ci sarebbe così un Rito bizantino (greco, con le caratteristiche d’un imprecisato, esotico Oriente) e un Rito latino, che avrebbe “il meglio” del genio latino: la incisività della lingua latina, la sobrietà latina, ecc.

Pentarchia e Filetnismo

La fine dell’Impero romano, poi l’ateo Illuminismo francese, e infine la identificazione napoleonica tra “Stato” e “Nazione”, ha prodotto nella Chiesa l’aberrante prassi che ha portato alla nascita di tante Chiese nazionali (sic), in definitiva statolatriche. Non di rado, infatti, dette strutture non sono nate per una reale esigenza del popolo, ma sono state costituite nel XIX secolo spesso da governanti massoni e pur sempre da autorità esterne alla Chiesa. Per esempio, la nascita del Patriarcato di Bulgaria è segnata (1870) da un firmano del sultano Abdul Aziz; nel 1833 a “Capo” della Chiesa Greca fu posto il re bavarese Otto di Wittelsbach, per giunta neo-convertito (?) e minorenne, ecc.

Nonostante il Filetnismo sia stato riconosciuto come eresia, non sono poche le strutture che si oppongono alla prassi tradizionale della Chiesa, espressa dal concetto di Pentarchia. Ai nostri giorni persistono così situazioni del tutto anticanoniche (per esempio, la presenza di più vescovi ortodossi nella stessa città), paradossali (vedi il caso della scomparsa Cecoslovacchia, 150mila fedeli) e anacronistiche (l’isola di Creta è autonoma) e che in definitiva indeboliscono la missione della Chiesa nel mondo moderno. E si veda anche il caso della scismatica Chiesa di Skopje (sedicente di Macedonia).

E’ fuor di dubbio che lingue, usanze e tradizioni locali debbano essere rispettate, è fuor di dubbio che la Chiesa debba “incarnarsi” nel territorio, è fuor di dubbio che - per qualche tempo e particolari motivi – alcune Chiese possano aver bisogno di uno statuto di autonomia o autocefalia, come l’ebbe, per esempio, Siracusa o Ravenna. Ma hanno senso – oggi – “patriarcati”, autonomie e autocefalie giustificate solo dall’esistenza d’un particolare Stato (laico)?

lunedì 18 maggio 2009

Letture bibliche

Spesso, durante le celebrazioni, capita di sentire alcune letture che differiscono anche di molto dalle più diffuse Bibbie in italiano.

Il motivo di tante vistose differenze è che in italiano sono diffuse Bibbie basate pressoché esclusivamente sul cosiddetto “testo masoretico”, una versione in ebraico dell’Antico Testamento che risale al III secolo dopo Cristo e che è stata fissata da rabbini ebrei a partire dal IX secolo dopo Cristo (principali manoscritti: X\XI secolo dopo Cristo). Del testo canonico, invece, esistono in italiano solo pochi brani sparsi nei 4 volumi dell’Anthologhion (edizioni LIPA), il Pentateuco (ed. Dehoniane) e il Salterio (ed. Gribaudi): per di più, si tratta di edizioni piuttosto costose (e non del tutto prive di soluzioni discutibili). Le Bibbie comunemente in commercio rispondono ad alcuni criteri indicati nel 1965 dalla Conferenza Episcopale Italiana (eufonia della frase, cura del ritmo, ecc.) e “utilizzando il testo fissato in epoca moderna mediante un lavoro critico” (come testualmente dice l’introduzione a La Bibbia di Gerusalemme, ed. Dehoniane).

E’ lapalissiano, però, che un testo fissato in epoca moderna – per quanto “scientifico” – scarti il testo ricevuto dai Padri: è come ristrutturare il Colosseo per farne una multisala o come sbarazzarsi d’un Caravaggio per comprare un poster. Altrettanto evidente che il concetto di “moderno” è quanto mai vago: un qualsiasi computer, dopo pochi mesi è considerato antidiluviano. Qualsiasi “lavoro critico”, poi, di per sé non è mai definitivo. Ecco perché si rendono necessarie sempre nuove edizioni, ognuna presentata sempre come “nuovissima versione dei testi originali”.

Qualsiasi “lavoro critico”, infine, forse può essere utile (?) a qualche studioso, ma non corre il rischio di sovvertire o annullare la tradizione? C’è il rischio di proporre un testo elaborato in provetta: in fin dei conti, un OGM, un prodotto sintetico al posto del prodotto naturale. In fin dei conti, la Fede non è un prodotto di laboratorio (apparentemente asettico ma non si sa quanto tossico) ma un “deposito” ricevuto, ereditato dagli Apostoli, dai Martiri, dai Padri, dall’esperienza della Chiesa tutta. Giova a proposito rileggere alcuni passi del Commonitorio di san Vincenzo di Lerino:

“Cos'è il deposito? E’ ciò che ti è stato affidato, non lo hai trovato; tu l'hai ricevuto, non l’hai fatto tu. Non è frutto di ingegno personale, ma di dottrina; non è per uso privato, ma appartiene alla tradizione pubblica. Non è uscito da te, ma è venuto a te: tu non sei l’autore, ma il semplice custode; tu non sei il maestro, ma l’alunno; non devi guidare, ma seguire. …

Se si comincia a mescolare il nuovo con l'antico, ciò che è estraneo a ciò che è familiare, il profano con il sacro, in breve questo disordine si diffonde dappertutto, e nella Chiesa nulla resta intatto, inalterato, integro, senza macchia; dove prima c’era il santuario della verità pura e incorrotta, proprio lì ci sarà soltanto un bordello di infami e osceni errori. …

Le novità di parole di cui parla l’Apostolo sono le novità in contrasto con la tradizione e l'antichità; la loro accettazione implica la totale violazione della fede dei santi Padri, porta a dire che tutti i fedeli di tutti i tempi - tutti i santi, gli asceti, i confessori, i martiri - per un gran numero di secoli hanno ignorato, sbagliato, bestemmiato, senza sapere quel che dovevano credere.”

Chiesa e Società

Un osservatore esterno nota con meraviglia che, negli Stati a maggioranza ortodossa, nelle processioni l’incarico di portare l’icona della festa è quasi sempre affidato a militari, che la bandiera ha sempre un posto d’onore in chiesa, che all’autorità civile (dal sindaco al presidente della Repubblica) è spesso dato di dire Credo e Padre Nostro a nome di tutti i presenti, ecc. Il comune turista (e non solo!) finisce col formulare accuse di “cesaropapismo”.

La “sinfonia” tra Chiesa e società civile, invece, ha molte e diverse cause. Innanzitutto, il clero sposato: in uno Stato a maggioranza ortodossa, anche l’ateo incallito è padre, figlio, fratello, nipote… di un prete, e la forte diffusione dell’ideale ascetico fa sì che tutti abbiano in famiglia un monaco. Il monaco, poi, è più un “laico” che un “chierico”: non è separato dalla vita comune del contadino, dell’artigiano, ecc. La presenza, magari in ogni famiglia, di un diacono, di un sacerdote, di un monaco e, perché no? di un vescovo, ha fatto sì che usi “religiosi” si siano radicati come usanze popolari (si pensi alla pratica del digiuno) e viceversa.

Secondariamente, l’Oriente (non solo cristiano) per fortuna non ha conosciuto la Rivoluzione francese e i guasti dell’Illuminismo (e di tutti gli ismi) sono penetrati in Oriente solo come indigesto prodotto d’importazione dall’Occidente (dal Comunismo, al Nazismo e al Laicismo).

Tra i guasti dell’Illuminismo c’è senza dubbio, la confusione tra Nazione e Stato (confusione che ha purtroppo portato alla nascita di Chiese nazionali), ma – comunque – tutti gli Stati a maggioranza ortodossa sono nati dalla Chiesa, grazie all’opera della Chiesa. Mentre l’Italia, per esempio, è nata contro la volontà della Chiesa, la Grecia è nata grazie alla Chiesa: non solo furono ecclesiastici e monaci a mantenere viva la lingua, la cultura, l’identità nazionale, ma essi stessi per primi incitarono (e presero parte attiva) all’insurrezione che portò alla nascita della Grecia moderna.

Molti altri motivi si possono indicare: la “sinfonia” tra Chiesa e società civile è però frutto, in modo precipuo, del dogma di Calcedonia: chi sa che Cristo non è un dio apparso in forma umana, né un uomo divinizzato, ma il Theanthropos, sente – prima ancora di credere – che la Chiesa stessa è incarnata, che non ci deve essere contrasto (agostiniano) tra Civitas mundi e Civitas Dei. Non per niente, il dogma di Calcedonia è espresso in greco con una sola parola (Theanthropos), così come una sola parola si usa per chiamare Theotokos la Vergine Maria, mentre in italiano si è costretti a dire, rispettivamente, Dio-Uomo e di-Dio-genitrice: la “distinzione” grafica finisce col produrre un’inconscia “separazione” mentale.         

sabato 16 maggio 2009

Il principio di adattamento

Il principio di adattamento delle circoscrizioni ecclesiastiche alle circoscrizioni civili è d’età apostolica: gli “Atti” del cosiddetto Concilio degli Apostoli vengono inviati alla Chiesa che è nella capitale della Provincia (Antiochia), e Paolo scrive alla Chiesa di Corinto (capitale della Provincia d’Acaia), alla Chiesa di Roma (capitale della Provincia di Italia), ecc. Il principio fu seguito, per esempio, ancora nel IX secolo: il ruolo del vescovo di Reggio cresce man mano che l’arcivescovo di Siracusa – a causa dei Saraceni – non è più in grado di esercitare le sue funzioni primaziali (o quando è eretico: vedi il caso di Cirillo di Reggio e Leone di Catania).

Il principio di adattamento è seguito ancora ai nostri giorni, facendo in genere corrispondere le diocesi al territorio delle rispettive circoscrizioni amministrative civili (per esempio: la diocesi cattolica di Messina corrisponde all’intera provincia di Messina, essendo state soppresse man mano le diocesi di Taormina, Lipari e Santa Lucia del Mela nonché l’Archimandritato del Salvatore)

Il principio di apostolicità è invece molto più tardo, e dovut

a)  in Occidente, alla progressiva perdita d’importanza e ruolo di Roma Antica, rispetto alla Nuova Roma (e alla vicina Chiesa di Ravenna nonché alla sterminata Chiesa di Aquileia);

b   b)  in Oriente, al crescente ruolo di Nuova Roma, che – in quanto capitale dello Stato romano - non doveva essere sminuito dalla ricchissima e potente Alessandria (nonché dal vicino e vastissimo patriarcato d’Antiochia).

Il principio di apostolicità conferisce importanza a una determinata Chiesa riferendosi al fondatore, vero o (più di frequente) presunto: se Ravenna è fondata da un discepolo (dell’apostolo Pietro, Apollinare), Aquileia è fondata da un apostolo (Marco); se Siracusa è fondata da un discepolo (dell’apostolo Pietro, Marciano), Reggio è fondata da un apostolo (Paolo). Così, quando Nuova Roma sarà più importante di Roma Antica, si comincerà a dire che la Chiesa di Roma Antica è stata fondata da Pietro (e a Nuova Roma si rifaranno subito a Andrea, il fratello di Pietro). In epoca recente, poi, il fondatore (vero o presunto) è stato spesso inserito nelle stesse Liste episcopali: l’apostolo Pietro viene oggi computato come primo papa, l’apostolo Andrea apre il Catalogo dei patriarchi di Costantinopoli, ecc. Per rifarsi al principio di apostolicità, anziché al tradizionale (“apostolico”) principio di adattamento, sono anche nate dubbie Feste del Trono: l’apostolo Paolo è senza dubbio fondatore delle Chiese di Corinto, Filippi, Tessalonica, ma ad Atene da qualche anno viene festeggiato come fondatore della Chiesa di Grecia (strictu sensu nata negli anni 1850\1928).

La trasmutazione dei Doni

Il pensiero occidentale

1.       1. ritiene che la transustanziazione (cambiamento della sostanza) di pane e vino avviene quando il sacerdote, agens in persona Christi (impersonando Cristo), pronuncia le parole “Questo è il mio Corpo” e “Questo è il calice del mio Sangue”. E’ la posizione dei Cattolici.

2.     2.  ritiene che il mutamento di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo avviene quando il sacerdote pronuncia l’Epiclesi (la preghiera Fa’ di questo pane, ecc.). E’ la posizione di alcuni Ortodossi.

3.      3.  nega qualsiasi transustanziazione o mutamento. E’ la posizione dei Riformati.

La teologia ortodossa afferma invece che la trasmutazione di pane e vino nel Corpo e Sangue di Cristo avviene perché il sacerdote con tutta la Chiesa supplica il Padre d’inviare lo Spirito sui presenti e sui Doni, realizzando così pienamente il Regno dei cieli grazie alla “trasformazione” sia dei Doni che di quanti ricevono i Doni. La certezza che i Doni ricevuti siano il Corpo e il Sangue del Diouomo è basata sull’evangelica parola:

-        - Chiedete quel che volete e vi sarà fatto.

-       - Qualsiasi cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena.

-        - Se due di voi in terra si accordano per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la farà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, sono lì in mezzo a loro.

-        - Chiedete e vi sarà dato.

-        - Tutto quel che chiedete nella preghiera, abbiate fede di ottenerlo, e sarà a voi.

-        - Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò.

-        - Se avete fede e non dubitate, … tutto quel che, credendo, chiederete nella preghiera, lo otterrete.

E’ probabile che la posizione 3 non sia una negazione quanto una conseguenza della posizione 1\2. In effetti, le eresie sull’Eucaristia son tutte interne all’Occidente e tutte nate nell’Occidente franco-germanico, con Ratbert e Ratramn di Corbie (Francia), Hraban di Mainz (Germania), John l’Irlandese, Berengar di Tours (Francia), ecc. e rispondono all’antropocentrismo occidentale. L’uomo occidentale, in pratica, si ritiene così infallibile, così super-uomo, e poi così tecnologico e così onnipotente, che non ha bisogno di chiedere e non vuole chiedere per ottenere quel che può “fare da solo”, oppure di fatto nega la Potenza di Dio perché - sopraffatto da un pensiero debole - non ha più alcuna solida certezza, neppure nella Parola di Dio.

Errori sul Filioque - I

“Il Filioque appare già nel “Simbolo” composto da sant’Atanasio (295-373), quindi nel IV secolo”:

a.    a. Il Simbolo in questione, originariamente è stato composto in latino;

b.    b. Solo nell’VIII secolo si cominciò ad attribuirlo a sant’Atanasio;

c.     c. E’ ormai da tutti accertato che esso fu composto non prima del VI secolo e in qualche territorio dove erano forti tendenze ereticali .

d.    d. Il “Filioque” non appare nei manoscritti più antichi, ma solo in copie molto tarde (secolo IX).

“Il Filioque appare già nel “Simbolo” letto al Sinodo di Toledo dell’anno 470”.

a.    a. Nei manoscritti è assente. Appare solo in falsificazioni molto tarde (secolo IX) degli Atti di quel Sinodo.

Che il Filioque sia una “aggiunta” – sia pure “necessaria” - è riconosciuto dal Sinodo di Firenze (per i cattolici: 17° Concilio ecumenico) e dal successivo magistero pontificio (Denziger 1302, 1986); agli Uniati è consentito pronunciare il Credo senza tale aggiunta.