La lingua liturgica per eccellenza – piaccia o non piaccia – è il greco: già per il solo e semplice motivo che il 100% dei testi liturgici è stato pensato, musicato e scritto in greco. Così come il 100% dei testi biblici originali è in greco (e in gran parte anche pensati in greco). Così come in greco è – salvo marginali apporti siriaci e latini – il materiale teologico alla base degli stessi testi. Anche un analfabeta, poi, è consapevole che tradurre equivale sempre a tradire: figurarsi tradurre dal greco – ricco di almeno 90 milioni di lemmi – in una qualsiasi altra lingua e specialmente nelle lingue moderne (l’italiano medio usa non più di seicento \ ottocento vocaboli).
Ciò premesso, la Chiesa non si è arroccata nell’uso esclusivo del greco (come per un millennio almeno, con il latino, la cristianità occidentale) e ha sempre trovato del tutto naturale l’uso degli idiomi locali, sin dai tempi antichi in cui i testi greci furono tradotti in georgiano o, secoli dopo, in slavo. San Cirillo – un greco – finì in carcere, per difendere l’uso liturgico dello slavonico, e nel 18° secolo fu sant’Antimo – un georgiano – a promuovere le traduzioni in rumeno.
Legittimo è quindi l’uso anche dell’italiano, purché sia davvero italiano e non pseudo-italiano: qua e là si sentono invece dei testi con fonemi (forse) italiani, ma più incomprensibili dell’ungro-finnico. Se anziché il verbo divinizzare uso il verbo indïàre, tanto vale che parli in calmucco.
E’ poi comprensibile che, in una concelebrazione, ogni sacerdote usi la propria lingua (soprattutto se non è in grado di usare decentemente la lingua del luogo), ma è piuttosto bizzarro che sacerdote, da solo, faccia sfoggio delle proprie conoscenze (?) linguistiche. E’ infatti accettabile l’uso di un moderato bi-linguismo (per esempio: il sacerdote usa l’italiano e il coro usa il greco), ma insopportabile è la babele linguistica, con il sacerdote che pronuncia una frase in italiano, la successiva in rumeno, la terza in russo, la quarta in arabo, e chi più ne sa più ne dice. Anziché sentirsi tutti “accolti” tutti, si finisce che nessuno sa più dove si trovi.
Non si capisce infine perché solo in Italia i fedeli abbiano mal di pancia se in chiesa ciascuno non sente la propria lingua materna: non ha malpancismo lo spagnolo che va in una chiesa ortodossa di Helsinki, e così è per il fedele greco che va in Georgia, per l’ortodosso ugandese a Gerusalemme, per il fedele arabo a Cuba (e per l’italiano che va in Grecia).
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