venerdì 3 luglio 2009

Riti orientali e occidentali

La distinzione nasce probabilmente da un pre-concetto: per motivi ideologici, alcuni storici – figli dell’Illuminismo francese – hanno immaginato l’esistenza di un Impero romano d’Occidente, distinto e separato dall’Impero bizantino (detto anche, nel migliore dei casi, Impero romano d’Oriente). I due Imperi avrebbero così avuto due tradizioni liturgiche diverse. Ci sarebbe così un Rito bizantino (greco, con le caratteristiche d’un imprecisato, esotico Oriente) e un Rito latino, che avrebbe “il meglio” del genio latino: la incisività della lingua latina, la sobrietà latina, ecc.

Letture bibliche

Spesso, durante le celebrazioni, capita di sentire alcune letture che differiscono anche di molto dalle più diffuse Bibbie in italiano.

Il motivo di tante vistose differenze è che in italiano sono diffuse Bibbie basate pressoché esclusivamente sul cosiddetto “testo masoretico”, una versione in ebraico dell’Antico Testamento che risale al III secolo dopo Cristo e che è stata fissata da rabbini ebrei a partire dal IX secolo dopo Cristo (principali manoscritti: X\XI secolo dopo Cristo). Del testo canonico, invece, esistono in italiano solo pochi brani sparsi nei 4 volumi dell’Anthologhion (edizioni LIPA), il Pentateuco (ed. Dehoniane) e il Salterio (ed. Gribaudi): per di più, si tratta di edizioni piuttosto costose (e non del tutto prive di soluzioni discutibili). Le Bibbie comunemente in commercio rispondono ad alcuni criteri indicati nel 1965 dalla Conferenza Episcopale Italiana (eufonia della frase, cura del ritmo, ecc.) e “utilizzando il testo fissato in epoca moderna mediante un lavoro critico” (come testualmente dice l’introduzione a La Bibbia di Gerusalemme, ed. Dehoniane).

E’ lapalissiano, però, che un testo fissato in epoca moderna – per quanto “scientifico” – scarti il testo ricevuto dai Padri: è come ristrutturare il Colosseo per farne una multisala o come sbarazzarsi d’un Caravaggio per comprare un poster. Altrettanto evidente che il concetto di “moderno” è quanto mai vago: un qualsiasi computer, dopo pochi mesi è considerato antidiluviano. Qualsiasi “lavoro critico”, poi, di per sé non è mai definitivo. Ecco perché si rendono necessarie sempre nuove edizioni, ognuna presentata sempre come “nuovissima versione dei testi originali”.

Qualsiasi “lavoro critico”, infine, forse può essere utile (?) a qualche studioso, ma non corre il rischio di sovvertire o annullare la tradizione? C’è il rischio di proporre un testo elaborato in provetta: in fin dei conti, un OGM, un prodotto sintetico al posto del prodotto naturale. In fin dei conti, la Fede non è un prodotto di laboratorio (apparentemente asettico ma non si sa quanto tossico) ma un “deposito” ricevuto, ereditato dagli Apostoli, dai Martiri, dai Padri, dall’esperienza della Chiesa tutta. Giova a proposito rileggere alcuni passi del Commonitorio di san Vincenzo di Lerino:

“Cos'è il deposito? E’ ciò che ti è stato affidato, non lo hai trovato; tu l'hai ricevuto, non l’hai fatto tu. Non è frutto di ingegno personale, ma di dottrina; non è per uso privato, ma appartiene alla tradizione pubblica. Non è uscito da te, ma è venuto a te: tu non sei l’autore, ma il semplice custode; tu non sei il maestro, ma l’alunno; non devi guidare, ma seguire. …

Se si comincia a mescolare il nuovo con l'antico, ciò che è estraneo a ciò che è familiare, il profano con il sacro, in breve questo disordine si diffonde dappertutto, e nella Chiesa nulla resta intatto, inalterato, integro, senza macchia; dove prima c’era il santuario della verità pura e incorrotta, proprio lì ci sarà soltanto un bordello di infami e osceni errori. …

Le novità di parole di cui parla l’Apostolo sono le novità in contrasto con la tradizione e l'antichità; la loro accettazione implica la totale violazione della fede dei santi Padri, porta a dire che tutti i fedeli di tutti i tempi - tutti i santi, gli asceti, i confessori, i martiri - per un gran numero di secoli hanno ignorato, sbagliato, bestemmiato, senza sapere quel che dovevano credere.”

Il monastero

Il monastero è un luogo in cui un tale vive monos, da solo: è una affermazione lapalissiana ma che, di recente, nel reggino ha persino provocato dolorosi equivoci, evidentemente dettati da sesquipedale ignoranza. Che non di rado riecheggia anche in accreditati studi storici.

Per Monastero, infatti, non bisogna intendere il Convento della cristianità occidentale: come suggerisce il nome, il primo di per sé è l’abitazione di un singolo, mentre l’altro è un edificio in cui con-vengono più persone: il Convento (per lo più, urbano) è sempre uno stabile – più o meno grande – unitario nella sua struttura, accanto a una chiesa (o che ha una chiesa al suo interno).

La “tipologia” invece del Monastero ortodosso è quanto mai varia; si può avere:

1. una struttura in cui vive un singolo o in cui vivono più persone, a volte (non necessariamente) addossata o vicino a una chiesa;

2. più strutture, in ognuna delle quali vive un monaco (o più monaci), nelle vicinanze di una o più chiese (come un villaggio più o meno grande, e che a volte può assumere l’aspetto di un piccolo paese con le sue frazioni e case sparse);

3. un agglomerato di strutture, in qualche modo collegate tra loro, attorno a una chiesa principale, i cui abitanti si ritrovano – nel corso dell’anno – per alcune celebrazioni e pasti in comune, in occasione delle feste (in Occidente, vi somigliano i Monasteri certosini);

4. un agglomerato di strutture comuni, in qualche modo collegate tra loro attorno a una chiesa principale, i cui abitanti si ritrovano quotidianamente per le celebrazioni e i pasti (in Occidente, vi somigliano i grandi Monasteri di tipo benedettino); per esigenze difensive, in passato, questo e il tipo 4 spesso si circondò di mura (come del resto molti villaggi).

Abbiamo parlato di “strutture” anziché “case”, perché – un tempo - il Monastero poteva essere una costituito da una cascina; una qualsiasi grotta o addirittura un cimitero a grotte (vedi Pantalica di Siracusa); una torre abbandonata; un Kàthisma o un Mitàton (un Comitatum, un’antica stazione per bivacchi dell’Esercito romano), una o più capanne o “baracche”, ecc. Nei documenti s’incontrano i più vari nomi, che spesso indicano più il genere di vita, che il tipo di struttura: Lavra; Efchitirion (casa-di-preghiera); Isichastirion (casa-di-tranquillità); Kathisma (v.s.); Kalivi (di per sé, capanna: di solito si intenda genericamente una piccola struttura monastica); Kellìon (di per sé, la cella, la stanzetta in cui dorme il monaco: di solito si intenda c.s.); Kinovion (Cenobio); Skiti (Scete), ecc. E’ necessario ricordare l’esistenza dei metochia: dipendenze (in genere, a fini agricoli) d’un Monastero: il “Monastero di Santa Lucia” presso Reggio dove per qualche tempo visse sant’Elia con il suo maestro Arsenio, in realtà era un metochio (forse, il mulino) del monastero di Santa Lucia. Metochio che poteva essere anche molto distante dal Monastero: il Monastero di Santa Caterina nella penisola del Sinai aveva un Metochio a Messina (e a tutt’oggi ne ha in Grecia, nel Libano e in Turchia).

Le diverse tipologie sono da ricordare per non correre negli errori presenti in quasi tutti gli studi storici: è del tutto inutile e fuorviante, per esempio, discutere se il Monastero dei Santi Elia e Filareto fosse a Palmi oppure a Seminara: poteva benissimo essere sia a Palmi che a Seminara (ovvero: i ruderi individuati nell’uno o nell’altro posto potrebbero essere niente altro che quelli di una delle sue strutture). Ancora più inutile accapigliarsi (come è stato fatto) per stabilire – addirittura – i confini del Merkurion: una “regione monastica” che poteva benissimo estendersi dalla Piana di Gioia Tauro sino al Pollino.