Il monastero è un luogo in cui un tale vive monos, da solo: è una affermazione lapalissiana ma che, di recente, nel reggino ha persino provocato dolorosi equivoci, evidentemente dettati da sesquipedale ignoranza. Che non di rado riecheggia anche in accreditati studi storici.
Per Monastero, infatti, non bisogna intendere il Convento della cristianità occidentale: come suggerisce il nome, il primo di per sé è l’abitazione di un singolo, mentre l’altro è un edificio in cui con-vengono più persone: il Convento (per lo più, urbano) è sempre uno stabile – più o meno grande – unitario nella sua struttura, accanto a una chiesa (o che ha una chiesa al suo interno).
La “tipologia” invece del Monastero ortodosso è quanto mai varia; si può avere:
1. una struttura in cui vive un singolo o in cui vivono più persone, a volte (non necessariamente) addossata o vicino a una chiesa;
2. più strutture, in ognuna delle quali vive un monaco (o più monaci), nelle vicinanze di una o più chiese (come un villaggio più o meno grande, e che a volte può assumere l’aspetto di un piccolo paese con le sue frazioni e case sparse);
3. un agglomerato di strutture, in qualche modo collegate tra loro, attorno a una chiesa principale, i cui abitanti si ritrovano – nel corso dell’anno – per alcune celebrazioni e pasti in comune, in occasione delle feste (in Occidente, vi somigliano i Monasteri certosini);
4. un agglomerato di strutture comuni, in qualche modo collegate tra loro attorno a una chiesa principale, i cui abitanti si ritrovano quotidianamente per le celebrazioni e i pasti (in Occidente, vi somigliano i grandi Monasteri di tipo benedettino); per esigenze difensive, in passato, questo e il tipo 4 spesso si circondò di mura (come del resto molti villaggi).
Abbiamo parlato di “strutture” anziché “case”, perché – un tempo - il Monastero poteva essere una costituito da una cascina; una qualsiasi grotta o addirittura un cimitero a grotte (vedi Pantalica di Siracusa); una torre abbandonata; un Kàthisma o un Mitàton (un Comitatum, un’antica stazione per bivacchi dell’Esercito romano), una o più capanne o “baracche”, ecc. Nei documenti s’incontrano i più vari nomi, che spesso indicano più il genere di vita, che il tipo di struttura: Lavra; Efchitirion (casa-di-preghiera); Isichastirion (casa-di-tranquillità); Kathisma (v.s.); Kalivi (di per sé, capanna: di solito si intenda genericamente una piccola struttura monastica); Kellìon (di per sé, la cella, la stanzetta in cui dorme il monaco: di solito si intenda c.s.); Kinovion (Cenobio); Skiti (Scete), ecc. E’ necessario ricordare l’esistenza dei metochia: dipendenze (in genere, a fini agricoli) d’un Monastero: il “Monastero di Santa Lucia” presso Reggio dove per qualche tempo visse sant’Elia con il suo maestro Arsenio, in realtà era un metochio (forse, il mulino) del monastero di Santa Lucia. Metochio che poteva essere anche molto distante dal Monastero: il Monastero di Santa Caterina nella penisola del Sinai aveva un Metochio a Messina (e a tutt’oggi ne ha in Grecia, nel Libano e in Turchia).
Le diverse tipologie sono da ricordare per non correre negli errori presenti in quasi tutti gli studi storici: è del tutto inutile e fuorviante, per esempio, discutere se il Monastero dei Santi Elia e Filareto fosse a Palmi oppure a Seminara: poteva benissimo essere sia a Palmi che a Seminara (ovvero: i ruderi individuati nell’uno o nell’altro posto potrebbero essere niente altro che quelli di una delle sue strutture). Ancora più inutile accapigliarsi (come è stato fatto) per stabilire – addirittura – i confini del Merkurion: una “regione monastica” che poteva benissimo estendersi dalla Piana di Gioia Tauro sino al Pollino.
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